Gerard Way: da cavaliere oscuro alla musica come soteriologia – Sitosophia (2025)

[di Stefano Marullo e Clelia Marullo*]

C’è un profumo di morte nelle canzoni dei My Chemical Romance, gruppo fondato da Gerard Way nel 2001 e ancora in auge dopo alterne vicende che hanno segnato la loro burrascosa storia fino allo scioglimento e alla clamorosa reunion. Desert song (2006) è inequivocabilmente lugubre ed esprime, forse in modo eclatante, l’humus esistenziale che promana dal mondo tenebroso di Gerard: «Siamo crollati tutti? Siamo crollati tutti?… dalla terra all’obitorio, obitorio, obitorio, obitorio…tutto crolla, beh, dopo tutto».

In Welcome in the black parade la morte si fa processione in una sinistra orda di rappresentanti dell’oltretomba che accoglie un neo arrivato con chiare evocazioni timburtoniane mentre Gerard & Co. si esibiscono su un carro funereo con abiti che richiamano sagome scheletriche. Nei testi di Gerard c’è comunque una sorta di prossimità quasi mistica tra amore e morte. Helena, inserito in Three Cheers for Sweet Revenge (2004), sotto questo aspetto, è un pezzo straordinariamente esemplare: Elena Lee Rush era la nonna dei due fratelli Way (l’altro è Mikey, bassista del gruppo), molto vicina al gruppo, e la sua dipartita è stata molto dolorosa per loro. Il videoclip vede Gerard in versione predicatore davanti alla bara dentro ad una chiesa gremita mentre il gruppo si esibisce (il richiamo ai Ramones e prima di loro agli AC/DC in situazione analoga non sfugge ai rockers più anziani) in un canto triste e raffinato che miscela TSOL e Green Day: «Qual è la cosa peggiore che prendi da ogni cuore che spezzi. […] .Puoi sentirmi? Mi sei vicina? […] Ci incontreremo di nuovo […] Le cose andranno meglio se resto, arrivederci e buona notte». Altrove l’amore che canta Gerard è controverso e disperato: «I giorni svaniscono e le notti avanzano, andiamo gelidi fino alla fine […] Siamo proiettili, come pioggia di piombo, tutto questo passerà attraverso i nostri fantasmi, per sempre, come gli spaventapasseri che alimentano questa fiamma che stiamo bruciando […] Mentre cadiamo in questo pozza di sangue io incontrerò i tuoi occhi» (Demolition Lovers, 2002).

La morte è invece una vera ossessione per Gerard per sua stessa ammissione:

Quando ero un bambino ho realizzato che tutti muoiono. Ho realizzato che un giorno non avrei avuto i miei genitori, che non avrei avuto nessun altro. Probabilmente sarei finito da solo e poi sarei morto. Questo è successo quando avevo circa otto anni e sono andato fuori di testa per ben tre anni, fino a quando non sono diventato un adolescente. Non avevo ancora cominciato ad accettarlo. Non ho mai sentito la morte così vicina fino alla morte di nonna. Ma alla fine, immagino che abbia iniziato a vedere un po’ di bellezza e liberazione nella morte e penso che questo mi abbia reso ancora di più ossessionato dalla morte stessa.

Come in Cancer (2006), commovente testamento di chi è cosciente di essere vicino al trapasso: «Allontanati e seppelliscimi in tutti i miei colori preferiti… la parte più difficile di questo è lasciarvi… perché tutti i miei capelli hanno abbandonato il mio corpo, tutta la mia agonia… conto i giorni che mi restano, questo non è vivere… se mi dici addio oggi ti chiedo di essere sincero». Ma c’è anche profumo di vita e di riscatto nelle canzoni dei MCR scritte da Gerard. Già la citata lugubre Welcome to the black parade contiene l’espressione We’ll carry on ovvero “andremo avanti”. E ancora in Famous last word (2004): «Non sono spaventato, di continuare a vivere, non sono spaventato di camminare in questo mondo da solo […] nulla di ciò che tu possa dire può fermarmi nel ritornare a casa».
La musica per Gerard è anche cura: i My Chemical Romance nascono infatti sotto il segno del dolore e della rabbia: Gerard è sconvolto dagli eventi dell’11 settembre, vede gli aerei schiantarsi sulle torri e decide di formare il gruppo e scrive Skylines and Turnstiles (2002), dove grida: «Camminiamo in fila indiana, illuminiamo le nostre strade e prendiamo a pugni il nostro tempo […] questo cielo di una città spezzata, come butano sulla mia pelle, rubato dai miei occhi […] dentro quel buco che chiami petto, e dopo aver visto ciò che abbiamo visto, possiamo ancora reclamare la nostra innocenza? E se il mondo ha bisogno di qualcosa migliore, adesso diamogli un’altra ragione».

Gerard ha sempre sentito forte l’esigenza di buttare fuori quello che aveva dentro, di essere se stesso. L’ha pagata cara ai tempi del college questa sua autenticità, lui sovrappeso che vestiva come un metallaro in un ambiente di fighetti, che non mostrava alcun interesse per le ragazze. Echi di quel periodo in I’m not okay (2004), vero manifesto contro il bullismo, sul cui argomento Gerard è spesso tornato in diverse interviste: «Non sto bene perché questa cosa non mi fa star bene […] Cosa ci vorrà per mostrarti che la vita non è quella che ti sembra? […] Hai detto di leggermi come un libro, ma le pagine sono tutte strappate […] Non sto bene, non sto fottutamente bene». Questa pregnanza impressionista, questo primato dell’interiorità, ne hanno fatto un’icona di quel movimento culturale e musicale denominato emo (non a caso abbreviazione di emotional, emotivo) a cui in realtà i My Chemical Romance sono arrivati tardi, quando aveva cioè esaurito la sua spinta propulsiva dagli ambienti underground e punk statunitensi entro cui si era sviluppato. Way non ha mai amato molto quel termine, forse anche per il connotato negativo che ne ha caratterizzato la storia, cosa consueta in tutte le sottoculture alternative, e le speculazioni attorno a una presunta istigazione alla depressione e all’autolesionismo che le band aderenti a questa corrente susciterebbero nei giovanissimi. Rimane il fatto, innegabile, che di decine di gruppi emo-rock, nate a partire dalla metà degli anni Novanta fino ai primi anni del Duemila, non si ricorda più nessuno, mentre My Chemical Romance hanno ormai una consacrazione planetaria.

La forza di Gerard e dei MCR è l’empatia se tanti giovanissimi e tante giovanissime si riflettono in quello che dice perché lo considerano uno di loro. Alla maniera di Joë Bousquet e Ramón Sampedro, per ricordare un recente articolo di Antonio Di Gennaro, due intellettuali legati da un destino infausto che li costringe ad una paralisi totale: solo chi ha vissuto sul proprio corpo la morte può riuscirne a parlarne. Gerard Way ha trovato nella musica la sua liberazione (oggi ha una moglie e un figlio e si dedica ai fumetti) e attraverso di essa sta riuscendo nel miracolo di liberare anche altri. Il massimo per un’artista. «Avevo bisogno di fare qualcosa, che significasse davvero qualcosa, niente significherà nulla se non faccio qualcosa. Questo non significa andare a salvare il mondo, perché non puoi ovviamente, ma significa cercare di fare la differenza, entrare in connessione con un altro essere umano» (Gerard Way).

*studentessa di Liceo, appassionata di alternative rock, di questo articolo ha curato soprattutto le traduzioni dall’inglese

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